2010 – Fondazione Claudi alla scoperta di nuovi affreschi a Serrapetrona
Fondazione Claudi, grazie ad un sostanzioso contributo economico a favore della Parrocchia di San Clemente di Serrapetrona, ha realizzato una campagna di ricerca di affreschi nella Chiesa Arcipretale di San Francesco.
A Serrapetrona la cultura ha sempre un ruolo importante, infatti in questo piccolo paese dell’entroterra maceratese sono molteplici le iniziative volte alla promozione culturale. Una di queste è quella attuata dalla Fondazione Claudi di Roma che, grazie ad un sostanzioso contributo economico a favore della Parrocchia di San Clemente di Serrapetrona, ha realizzato una campagna di ricerca di affreschi nella Chiesa Arcipretale di San Francesco. La Fondazione Claudi non è nuova ad iniziative culturali promosse un po’ ovunque; questa volta ha scelto Serrapetrona, ma non a caso. Infatti il suo fondatore, Vittorio Claudi, era nato nel 1920 proprio a Serrapetrona.
Nella sagrestia della Chiesa di San Francesco, da sotto gli intonaci, sono stati fatti riemergere alcune tracce di affreschi disposte su due livelli, uno sovrapposto all’altro. Il livello più antico, di epoca trecentesca, riporta delle decorazioni a strisce con tre tonalità diverse (bianche, rosse e blu) disposte a spina di pesce, che abbelliscono i costoloni della volta e gli angoli delle pareti. Del livello più recente, verosimilmente del XV secolo, purtroppo è rimasto ben poco, se non alcune tracce, di una figura di corpo umano. E’ emerso una porzione di un busto, del quale sono visibili l’ombelico ed il perizoma, interamente ricoperto di ferite sanguinanti come segni di una flagellazione e, tracimante di sangue fluente, è ben evidente una ferita sul costato. Inoltre sono visibili anche i capelli, della parte sommitale di un capo circondato da aureola, sormontati da una corona di spine verdi. Questi pochi elementi, quali le ferite sul corpo e sul costato e la corona di spine, fanno dedurre immediatamente che siamo davanti ad una figura del Cristo. Verosimilmente trattasi dell’iconografia denominata “Uomo di dolori”, cioè un’immagine ricavata dai racconti della Passione nei Vangeli canonici, di cui può essere considerata un riassunto visivo, che presuppone un intento didattico e mnemonico. Questo soggetto diffuso soprattutto durante il XV secolo, collegato al ”De Imitatione di Christi”, il libro devozionale attribuito a Tommaso da Kempis (1380-1471), rappresenta la figura patetica di Cristo piagato che è la trasposizione visiva delle preghiere medievali, dove Gesù enumera tutti i supplizi che ha subito e le ferite ricevute. Nell’arte, il soggetto presenta alcune importanti varianti. Prima di tutto, non va confuso con le versioni “solitarie” dell’Ecce Homo. Anche qui Cristo compare da solo, con il corpo martoriato e l’espressione afflitta: però mancano i segni dei chiodi della Croce, mentre sono messi in evidenza la corona di spine, il mantello rosso e lo scettro di canna. Nelle opere che raffigurano l’Uomo di dolori, invece, compaiono le ferite delle mani, dei piedi e del costato. In alcuni casi (specie nell’arte italiana), Cristo viene raffigurato in piedi all’interno del sepolcro, con gli occhi chiusi, talvolta anche affiancato da Giovanni e dalla Madonna, come in una versione del Compianto. Nell’arte tedesca si preferisce raffigurare Cristo con un’espressione malinconica, quasi un’accusa per chi l’ha abbandonato. Al contrario, Cristo viene raffigurato morto nelle versioni nordiche del “Trono di grazia”. Altre varianti e definizioni sono “Christus patiens”, “Cristo in pietà” e “Arma Christi”, cioè Cristo con gli strumenti della Passione. Fra le opere più conosciute di artisti stranieri avente ad oggetto l’Uomo di dolori si possono annoverare quello di Petrus Christus (1450), di Albrecht Durer (1493) e quello di Maarten van Heemskerck (1532); fra gli artisti italiani che si sono cimentati in questo tipo d’iconografia, e sue varianti, si possono annoverare moltissimi autori, ma ci piace citare solo Lorenzo D’Alessandro perché artefice di tale raffigurazione, in diverse versioni, del Cristo in pietà, fra cui quella del maestoso polittico custodito presso la medesima Chiesa di San Francesco.
Un altro artista locale che ci sembra significativo citare per la similitudine iconografica all’affresco rinvenuto nella nostra Chiesa di San Francesco, è Diotallevi di Angeluccio con l’opera dello stendardo processionale della Chiesa della Madonna della Misericordia di Esanatoglia, dove, nel verso della tavola a fondo oro, è raffigurato il Cristo come Uomo di dolori affiancato da Sant’Anatolia e San Cataldo (seconda metà del XIV secolo).
La raffigurazione dell’Uomo di dolori, nella variante dell’Arma Christi, ha introdotto in tutto il mondo cristiano un modo di praticare la devozione alla Passione di Gesù, sostituta poi dal Settecento dalla “Via Crucis” nella forma in uso ancora oggi. L’inizio di questa pratica devozionale è fatta risalire al Papa San Gregorio Magno (540-604), sincero diffusore della verità della Messa come sacrificio della Croce e della reale presenza di Cristo nell’Eucarestia. Egli infatti racconta di aver avuto, al momento della consacrazione, una visione del Cristo sofferente e di aver capito come veramente il vino si era trasformato nel Sangue di Cristo. E’ interessante vedere come tale concezione mistica venga espressa nell’esasperazione artistica dell’iconografia del “Torchio mistico”, come possiamo riscontrare anche nell’opera fiamminga della tela di Matelica. In un’icona del Cristo in pietà, proveniente da Gerusalemme, Gregorio riconobbe le sembianze del Cristo dell’apparizione e fece diffondere copia dell’icona, ritenendo che quello fosse il vero volto di Cristo. Alla devozione di tale immagine egli legò delle indulgenze, applicabili anche ai defunti. Con il passare del tempo, le riproduzioni subirono delle modifiche, delle aggiunte, ad esse furono annesse, da altri pontefici, il testo delle preghiere da recitare durante la meditazione e l’indulgenza plenaria. Emerge quindi una figura di un Cristo Salvatore, che soffre per noi dandoci l’esempio per redimerci, già preannunciato, come un tratto peculiare della fisionomia del Messia, nei celebri canti del servo di Jahvè (Isaia 53, 2-7): “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei doloriche ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non avevamo alcuna stima. Eppure Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”.
Le poche tracce dell’affresco di Serrapetrona sicuramente, nella sua completezza, raffigurava un dipinto dove si evidenziava un’espressione del Cristo afflitto da una sofferenza intensa, una sorta di abbandono, un venir meno sotto un eccessivo peso del dolore, uno sfinimento supremo. Questo volto ha subito gli sputi e gli schiaffi, i colpi di canna sul capo, la trafittura delle spine; egli ha visto ed udito i gesti di scherno e parole di umiliazione, di sfida, di derisione e di disprezzo. E’ veramente l’Uomo di dolori, sul quale sono ricadute tutte le colpe dell’umanità. La sua regalità è indicata dalla ‘corona di sangue’ che le punture delle spine hanno provocato sul suo capo, la sua obbedienza al Padre dalle ferite, il dono della salvezza dall’abbondante flusso di sangue che cola dal costato squarciato dalla lancia. Nei segni del suo patire bisogna cogliere la grandezza del suo sacrificio, la totalità dell’offerta di sé, l’invito pressante a non rifiutare la salvezza conquistata a così alto prezzo. Sicuramente sono state queste le considerazioni fatte dai monaci francescani serrani committenti del nostro affresco, in onore anche del fondatore del loro ordine, anch’egli Uomo di dolori che ricevette le stimmate del Cristo Crocifisso. Il nostro affresco quindi è stato eseguito e sussiste per tre motivi: per la religiosità di chi l’ha voluto, per la sensibilità dell’artista che l’ha eseguito e per il chiaro intento ad invitare ad una pratica religiosa. Forse solo quest’ultimo intento, quello che più conta, è sopravvissuto seicento anni, è giunto fino a noi, riemergendo dall’oblio, a riproporci il desiderio e la fede di quelle persone, almeno due, il committente e l’artista, che continuano a farci un dono rinnovato e prezioso. E il loro invito, da raccogliere dalla comunità di Serrapetrona, non può essere che quello di vivere, custodire e di trasmettere il messaggio religioso in esso racchiuso, gustando con gioiosa riconoscenza il messaggio e il dono.
Paolo Mariantoni